Una delle cose che l’attuale situazione pandemica ci ha insegnato, almeno qui in Italia, è quella che ogni nostro acquisto, bisogno, desiderio, può essere o meno differibile. E a deciderlo non siamo noi. Qualcuno decide cosa è veramente indispensabile e cosa si può rimandare. Ma è davvero giusto così?
In Italia, Paese dove pure un piatto di spaghetti è considerato elemento culturale, dove la moda è cultura, in pochi sembrano occuparsi della musica che è considerata “cultura” solo quando è “alta cultura”: un’orchestra di classica è comunemente, ahinoi, considerata più culturalmente rilevante di una rock band, ad esempio. E pure di chi suona reggaeton, sebbene questo lo troviamo più comprensibile.
Ma andando oltre queste distinzioni, che pensiamo partano da presupposti errati, abbiamo finalmente avuto l’evidenza di ciò che in Italia è considerato cultura e cosa no. La musica, in Italia, non è cultura. Checché se ne dica, la musica è altra cosa. È uno svago, ecco. Un passatempo, un hobby stravagante.
Un libro è considerato cultura. Le librerie sono rimaste giustamente aperte, perché una buona lettura oltre a regalare un orizzonte diverso a chi non si è potuto muovere da casa, è anche una forma di accrescimento cognitivo.
Ma c’è chi quell’evasione e quel conforto le trova magari in una chitarra, in un ukulele o in un bel rullante da guardare sul mobile in salotto in attesa di poterlo finalmente suonare. E nessuno può sindacare la lista di priorità personali.
Disma Musica, la nostra associazione di categoria, si è battuta affinché il ruolo sociale del nostro minuscolo settore venisse riconosciuto, ovviamente insieme a quello di chi gli strumenti li suona per mestiere, consentendo ad attività come la nostra di rimanere aperte al pubblico a prescindere dal colore della nostra regione.
Tuttavia pensiamo anche che il concetto di cultura abbia dei margini di soggettività: se intendiamo il libro come elemento culturale, dobbiamo mettere sullo stesso piano una qualsiasi opera di Moravia e quei libri da Autogrill tipo “Come rimorchiare un rimorchio rimorchiando nel frattempo una milf in una piazzola sulla A14”. Ecco, a noi non sembra che il solo fatto di essere stampati li renda elementi culturalmente rilevanti alla stessa maniera.
Però qualcosa, oltre ai rimorchi, si muove.
È di questi giorni, finalmente!, la notizia della proposta di un disegno di legge* che porta come titolo “Modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, in materia di IVA agevolata per l’acquisto di strumenti musicali e dei relativi accessori”.
Per farla breve, insomma, propone di portare l’attuale aliquota iva al 4%, anziché al 22%, come già avviene proprio per i libri, esplicitando finalmente la natura culturale della musica e degli strumenti per crearla.
Abbiamo letto attentamente il disegno di legge (potete leggerlo anche voi, cliccando qui) e ci sembra una buona proposta anche nell’ottica di arginare i soliti “colossi del web” contro i quali dobbiamo combattere partendo da una posizione sfavorevole: loro pagano le tasse in quale paradiso fiscale, noi qui, e uno scarto sull’iva di 18 punti percentuali, credeteci, fa davvero la differenza.
È un’ottima notizia per il nostro settore ma soprattutto per voi musicisti amatoriali o professionisti perché, come diciamo sempre, se gli strumenti li paghiamo meno noi, li pagherete meno pure voi.
E di questi tempi, un bel risparmio del 18% non sarebbe affatto male. No?
*vi sorprenderà sapere che tra i firmatari non ci sono parlamentari dei partiti che fanno della “cultura” la propria bandiera (almeno a parole, è evidente) e che sono al comando al Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Ma amiamo comunque l’Italia.